L’«accabadura»: storiografia di un geronticidio in Sardegna tra mito, ritualità, letteratura di viaggio e tradizione orale
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- Categoria: Saggi
- Pubblicato Mercoledì, 15 Maggio 2013 22:55
- Scritto da Viviana Simonelli e Andrea Mulas
Le prime testimonianze scritte sull’uccisione rituale dei vecchi in area mediterranea risalgono all’antichità classica, in prevalenza intorno al III secolo a.C.
Le diverse attestazioni antiche di tale pratica presentano tuttavia ulteriori elementi che, a loro volta, hanno generato un grave equivoco di fondo, il quale, ha poi inficiato qualsiasi susseguente lettura del rituale eutanasico, denominato in ambito sardo come accabadura.
L’equivoco ha le sue più remote origini nel mondo classico, i cui documenti rilevano come gli ultrasettantenni venissero messi a morte in onore di Saturno (Kronos), Dio del tempo.
Ai vecchi sarebbe stata fatta ingerire una particolare erba velenosa, autoctona della Sardegna, letale per gli uomini e dannosa per gli animali: l’erba sardonica, (oeneanthe crocata), in sardo appiu de riu che, per sua stessa definizione, cresce copiosa lungo i corsi d’acqua ed è ancora usata dai pescatori di frodo, i quali, dopo averne ridotto in poltiglia le radici, le immergono nei corsi d’acqua, causando lo stordimento dei pesci.
Sovente condotti verso il loro ultimo destino dagli stessi figli, certo preda di ineludibili sensi di colpa, i vecchi genitori venivano da essi costretti a masticare le foglie di questa pericolosa euforbiacea, il cui aspetto ricorda molto quello del sedano selvatico.
Per sua peculiare composizione biochimica, la pianta, ingerita oppure solo strofinata sulle parti molli, esterne ed interne, del cavo orale, provoca una graduale trasfigurazione del volto, simile alle convulsioni generate dal tetano.
I suoi effetti tossici determinano spasmi atroci e una innaturale smorfia di dolore, cui segue fatalmente la morte.
L’insieme del rituale veniva ad avere, così, una manifestazione quasi iconica, che trovava nel ghigno innaturale della vittima il suo momento più alto, macabro e grottesco insieme.
Questa ieratica fissità è la stessa della maschera del teatro greco, ove i confini fra comoedia e tragoedia restano sempre labilmente ambigui.
Nel linguaggio metaforico, questo amaro e triste sorriso è definito riso sardonico, ed è appunto in tali termini che ne parla Omero, quando, nelle pagine dell’Odissea descrive l’espressione enigmatica del volto di Ulisse.
In uno studio del 1879-80, Ettore Pais rintraccia la vera origine del risus sardonicus in un culto arcaico, diffuso nella Licia, dedicato al dio Sardan: qui i volti delle vittime sacrificali, a causa degli spasmi generati dal dolore del rogo, si contraevano in una smorfia di dolore, simile appunto ad un riso innaturale.
Tra riso sardonico e accabadura, non sussiste alcuna relazione consequenziale di causa – effetto, e se legami si riscontrano tra i due fenomeni, essi sono di natura alquanto differente, sebbene li si trovi spesso connessi tra loro, pure in assenza di una origine comune ad entrambi.
Tra gli studiosi sardi contemporanei, il primo a ricondurre la vexata quaestio delle accabadoras in ambito storiografico è stato Francesco Alziator.
Nei suoi ampi studi sul folklore sardo, egli delinea dal punto di vista epistemologico la pratica dell’uccisione violenta dei vecchi e la riconduce in ambito greco: l’attribuzione ad essa di valenze profondamente negative è perciò da ricercarsi in quella visione ellenocentrica tipica dei secoli XI e X a.C. Questo parametro è il portato di una supremazia culturale della Grecia in ambito mediterraneo, primato che era altresì politico ed economico e culturale, insieme. A riguardo Alziator ricorda come fosse connotato spregiativamente “barbaro” tutto ciò che non trovasse rispondenza nei canoni egemoni della superiore lectio moralis della cultura greca. Si viene ad operare così una netta discriminazione tra “mondo civile”, quello greco, indicato come la più alta espressione estetica, etica e sociale all’epoca conosciuta, e “mondo non civilizzato”, rappresentato da ogni altro universo lontano da quell’insuperabile modello.
Tra le terre più remote, la Sardegna rappresentava l’”altrove” mitico, l’archetipo di un primordiale stato di natura, non ancora permeato da profondi afflati culturali: qui l’eliminazione fisica dei vecchi trovava la sua ragione di essere in una economia di pura sopravvivenza, che riconosce come valide per sé solo le legittimazioni dettate da determinismi di ordine materiale. Entro questo universo economico conchiuso, improntato ai cogenti dettami di una struttura sociale rigida e poco evoluta, ove domina incontrastata la legge del più forte per natura, l’autosufficienza fisica dell’individuo è valore essenziale nella diuturna lotta per la sopravvivenza per se stessi e per la comunità di appartenenza.
E’ appunto in tale prospettiva che devono essere interpretate le più antiche testimonianze sull’argomento, pervenuteci da Timeo, Sileno, Eliano, lo Pseudo-Aristotele e Suida “che tutti sembra compendiarli”, come scrive Alziator, il quale di seguito aggiunge: “Con il secolo X d.C. cessano le notizie sull’accabadoras”.1
L’analisi comparata delle fonti classiche, da lui operata sulle attestazioni di tale pratica eutanasica in Sardegna, dapprima rivolta verso i soli vecchi, quindi estesa anche ai malati terminali, conferma che non siamo in presenza di un’usanza tradizionale sarda che contempla il sacrificio umano, quanto piuttosto di una tradizione ellenica, che attraverso le sue fonti più autorevoli, è pervenuta fino a noi.
Una corretta impostazione analitica del problema certo non deve, né può, dirimere dubbi o tanto meno risolvere malposte quanto oziose questioni circa un’eventuale persistenza dell’accabadura ancora in epoca contemporanea, in certe aree dell’Isola, ove donne “prezzolate” avrebbero posto fine all’agonia straziante dei moribondi assestando loro un secco colpo al capo con una mazza di legno. L’etimologia di accabadura proviene dal castigliano acabar, corrispondente a “finire”, “dare fine”. Per un confronto con la cultura spagnola, a proposito dell’uccisione dei genitori vecchi da parte dei figli, particolarmente illuminante è lo studio del 1950 di George Dumézil sugli usi dei popoli baschi e sulla storia del loro diritto ereditario.2
Poco invece si sa sulla tipologia di questa corta mazza in legno, “sa mazzocca”, come la chiama Angius, quando la indica come strumento di morte rituale per i moribondi. Un esempio è conservato tra le collezioni del Museo “Galluras” a Luras, di cui siamo curatori scientifici.