Storie fuori dalla Storia: i contadini veneti di fine XIX secolo
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- Categoria: Saggi
- Pubblicato Mercoledì, 18 Dicembre 2013 17:38
- Scritto da Anna Malvestio
Il protagonista dell’emigrazione di massa veneta di fine XIX secolo è il mondo rurale. Prima di fare qualsiasi considerazione al riguardo, è necessario delineare brevemente la situazione in cui vivono migliaia di contadini veneti nell’Italia postunitaria. Innanzitutto, da un punto di vista sanitario, le condizioni disperate, dovute ad un’eccesiva miseria, portano alla diffusione di numerose malattie provocate dalla totale carenza di igiene: acqua putrida, case malsane e mancanza di servizi igienici. Contadini e poveri vengono per lo più colpiti da malattie ripugnanti quali la pellagra, che ha come prima manifestazione la “pelle arsa”, squamosa, provocata dal nutrirsi di quel solo cibo che dà sazietà ma non sostanza: la polenta. La scarsità di alimenti come carne, formaggio e uova, ricchi di apporti proteici e grassi, comporta un indebolimento fisico che, con il tempo, prostra al letto conducendo, nei casi peggiori, a pazzia e morte. A seguire, la tigna, che aggredisce il cuoio cappelluto; la scròfola, che lo altera; la rogna o scabbia che costringe a grattarsi fino al formarsi di vere e proprie piaghe, nonché parassiti infestanti quali pidocchi, pulci e cimici1.
A queste condizioni igienico-sanitarie, si unisce la situazione economico-politica, che vede l’annessione del Veneto, prima austriaco, all’Italia. Il passaggio non è per niente indolore; a neanche vent’anni di distanza dall’annessione, questo è il bilancio della situazione politica da parte di un esponente della classe dirigente, che in questi termini parla dei “nostri villici”:
[…] la maggior parte dei quali respinge ancora [1882] il dominio austriaco sotto il quale pagavano meno; essi non si curano che di una cosa sola, cioè di avere minori gravezze che sia possibile così coloniche che comunali, provinciali o governative. E’ questa una conseguenza logica del poco, per non dire nessuno, interessamento che il Governo ha preso fin qui per migliorare le condizioni della classe agricola, la quale, al postutto, non conosce il Governo che col mezzo delle imposte e degli esattori2.
La politica fiscale inaugurata dall’Unità d’Italia rende la vita insopportabile e impensabile per i contadini veneti: vedasi al riguardo la tassa sul sale, applicata a una sostanza indispensabile per la preparazione degli insaccati di maiale, unica riserva proteica per superare l’inverno; e la tassa sul macinato, che grava su ogni sacco di mais portato al mulino, per cui più bocche da sfamare ci sono, più farina da polenta è necessaria, più la tassa risulta onerosa.
A seguito di una situazione così insostenibile, i contadini sviluppano la più elementare forma di autodifesa, cercando una via di fuga dai vincoli fiscali, ricorrendo alla pratica dei furti campestri. Furti e violenze divengono fatti all’ordine del giorno, questo è quanto emerge dalle relazioni della maggioranza dei Comizi Agrari del Veneto3. Tali furti avvengono in un momento storico di congiuntura tra la crisi agraria di fine secolo e il pesante prelievo fiscale sui generi alimentari di prima necessità a seguito dell’Unità. Questo provoca, oltre ai furti, rivendicazioni, tumulti, agitazioni e proteste di piazza da parte dei contadini. In questo clima di malcontento e di emergenza sociale si inseriscono gli agenti d’emigrazione, coloro che, per conto di compagnie di navigazione o dei governi stessi (locali per evitare sommosse da parte dei contadini; stranieri per incrementare la forza lavoro), girano per le campagne promettendo mari e monti a chi è disposto ad emigrare. In Brasile e Argentina i rispettivi governi sono impegnati a sostituire gli schiavi con manodopera libera a basso costo, ed il gruppo latino sembra essere il prediletto ad assicurare una continuità non solo biologica ma anche morale, che abbia alla base una cultura e dei sentimenti comuni. Ovviamente questa volontà di “armonizzazione etnica” non solo guarda di buon occhio agli italiani, ma soprattutto ai veneti che, come si osserva nelle esperienze migratorie: “dimostrarono oltre alle virtù raziali di laboriosità e di intelligenza, una straordinaria plasticità biologica di adattamento definitivo all’ambiente, associando il sentimento di gratitudine all’istinto di evoluzione sociale”4.
Tuttavia, le cause materiali, unite alla pesante propaganda emigrazionista da parte dei governi, non bastano a spingere i contadini ad emigrare. I ricchi possidenti si limitano a credere che la decisione di migliaia di contadini sia, esclusivamente o quasi, dettata dalla voglia di rivincita di classe e dall’intenzione di mettere in cattiva luce i rapporti fra padroni coloni e salariati. In realtà, la scelta di emigrare, per quanto procurata o obbligata, non tarda a figurarsi come una voglia, una necessità, esercitata da “un intreccio di giustificazioni, di figurazioni e di emozioni a sfondo mitico, che fanno i conti colla più antica tradizione culturale contadina del sabba, del carnevale, del mondo di cuccagna”5.
La prospettiva della partenza, la conseguente recisione dei vincoli materiali con la sudditanza dai padroni e la subordinazione alla terra natia, possono configurarsi come il risultato di un evento da secoli vagheggiato dalle popolazioni rurali, e pregustato nelle lunghe veglie notturne dei “filò” dell’inverno6. In quest’ottica, emigrazione diviene sinonimo di liberazione, nel senso ampio del termine. Soprattutto nel caso dell’emigrazione transoceanica, ossia di una destinazione lontana, questa volontà di partire nasce da un processo di interiorizzazione, nel piano dell’immaginario, di una serie di stereotipi che attribuiscono all’America un valore utopico di terra delle opportunità, mediante il recupero di immagini riguardanti la conquista e la colonizzazione, già presenti, a loro volta, nella tradizione e cultura occidentale. Da quì la ripresa di termini come “El Dorado”, “Terra Promessa” e “Paese del Bengodi”, che fanno parte di un compendio di rappresentazioni che idealizzano e presentano il Nuovo Mondo come il luogo della realizzazione dei sogni, da contrapporsi alla decadente realtà del loro presente7. Come ogni utopia, anche questa si nutre della distanza spaziale e temporale rispetto al luogo d’origine. Così la distanza assegna all’America una funzione utopica: tanto più un luogo è lontano, tanto più tende ad essere idealizzato8. Quindi, il mito di “fare l’America” si costruirebbe a partire dalla contrapposizione tra “quì” e “là”, presente e futuro, vicino e lontano, in cui il primo elemento è sinonimo di miseria e povertà, il secondo di ricchezza. Secondo Fernando Ainsa, la decisione di emigrare potrebbe essere dettata da una doppia componente utopica9. Generalmente, infatti, le utopie sono considerate o “di fuga” o “di ricostruzione”, mentre nel caso dell’emigrazione transoceanica le due componenti sono attive simultaneamente, procurando, attraverso l’idealizzazione dello spazio lontano, il desiderio di ricostruzione grazie alla fuga dalla miseria.
Noè Bordignon, Gli emigranti, 1896-98 c., olio su tela, 174x243 cm.
Fonte, collezione privata.